di Luca Feletti, operatore Il Melograno

OLE’!

Facciamo un gioco, vi va? Questo gioco, va detto, è una provocazione molto forte, è chiaro, ma a volte le provocazioni aiutano a vedere le cose sotto un’ottica diversa e da un punto di vista diverso. Pur nella provocazione, è un gioco semplice: dovete soltanto immedesimarvi nella breve storia che ho da raccontarvi. Sono solo poche righe ma non limitatevi a leggerle; cercate di viverle, di provare emozioni. Siate questo breve racconto.

Pronti?

Innanzitutto immaginate di essere donne; alcune di voi già lo sono quindi sono avvantaggiate. Ecco, siete una donna e siete in casa; però questa casa è strana, ci vive un sacco di gente – uomini e donne – e la maggior parte per voi sono sconosciuti, nemmeno li salutate, nemmeno li conoscete per nome. Quindi siete in questa casa affollata e rumorosa, decidete di cercare un po’ di pace nella vostra stanza ma, toh, nella vostra stanza ci vive un’altra donna. Se siete fortunate, condividete la stanza con qualcuna che vi saluta e vi rispetta, altrimenti sono discussioni continue; sulla finestra che dev’essere aperta o chiusa, sul disordine, su vestiti. Su ogni cosa.

Almeno il letto, quello sì, è vostro. Quasi quasi attacco la foto della persona amata – di un figlio, di un genitore – al muro, così mi conforto con quel minuscolo frammento di familiarità, potreste pensare. Invece no, nemmeno quello. Qui niente può essere personalizzato; una vita nella spersonalizzazione del sé.

Notte. Avete fame? Tenetevela, non c’è frigo e non si può portare cibo in camera. Avete sete? Si beve in bagno, sperando che in quel lavandino non ci si sia lavata i piedi un secondo prima la vostra coinquilina sconosciuta. Non riuscite a prendere sonno e volete fare due passi? No! No, no e ancora no!

Che inferno, penserete voi, ma per fortuna ci sono anche dei sì ad allietare le vostre vite! Sì perché sono le 8 del mattino e, sì, dovete uscire. Tutte. Sì, dovete uscire fuori da questa casa dove non-vivete. Sì, ok, allora? Presto che è tardi, fuori!

E se durante il giorno avete fame, potete accedere a un pasto nell’orario deciso da altri, con un menù deciso da altri, mangiando insieme ad altri che non si conoscono. Sì, ok, avete ancora da ridire? Se non vi sta bene potete andare a cercare un altro posto, io un’altra che occupa il letto la trovo in un secondo con tanta gente che vive in strada.

Ok, meglio tacere. Quindi siete in giro per la città dalla mattina fino alla sera, momento in cui la strana casa in cui vivete riaprirà le porte. Ma se durante tutto il giorno in giro doveste aver bisogno di fare i vostri bisogni? Ancora con tutte ’ste pretese? La città è grande, trovatevi un angolo dove farla. Ah già, siete donne, è un casino; mica è un mio problema, non l’ho mica deciso io, ho già tante cose che devo decidere. Quindi beh, il problema è tuo, non saprei come aiutarti.

Poi la sera, finalmente la sera, e dopo una giornata da incubo, il vostro letto vi sembra la più dolce e accogliente delle case, anche con i piedi puzzolenti della coinquilina. Sì però non penserete mica che questa sia casa vostra, vero? Qui siete ospiti, capito? O-SPI-TI!! Quindi guardatevi bene dall’accasarvi che fra 30 giorni smamma, devo riassegnare questo letto.

Ecco, il gioco è finito. Come vi sentite?

Purtroppo per voi non è finita qui, c’è la sorpresina finale, un po’ come va di moda adesso che, dopo i titoli di coda di un film, c’è la scena finale: e qui la sorpresa è che questo gioco, in realtà, non è un gioco. È quanto accade quotidianamente nella vita di molte persone, di molte donne, a ripetizione, per mesi, per anni. In attesa di una casa vera in qualche zona sperduta della periferia.

Ma attenzione perché non è ancora finita, c’è dell’altro, qualcosa di ancora più pesante e frustrante: il giudizio. Perché se siete un uomo e fate questa vita, siete sfortunati; se siete donne, invece, sicuramente siete delle fallite – siete ancora donne, ricordàtelo – e non avete voglia di fare nulla; se poi per caso ridete, chissà cosa avrete da ridere, e poi chissà cosa avete combinato per esservi ridotte così.

Ridotte così. Rotte così, spezzate dalla vita.

Ora il gioco che vi ho proposto è davvero finito e sento una pesantezza infinita per le parole che ho scritto, quasi me ne vergogno. Come fossero piombo; tegole, macigni che pesano sulla schiena di chi già è fragile e si è dovuta arrendere a una vita troppo dura.

Questo, che in maniera provocatoria ho proposto come gioco, è quanto accade quotidianamente nelle strutture per persone senza dimora e anche questi termini, queste parole, sono fredde e spersonalizzanti come le loro vite; è un continuo rimandare loro l’essere non-persone, l’essere non-protagonisti in quelle che sono delle non-vite.

E quindi? Ora che si fa? Ora che vi ho raccontato cosa succede in certe vite, che si fa? Ora che sapete come funzionano certe ‘strutture’? (Piccolo off-topic: è anche grottesco chiamare struttura qualcosa che in realtà destruttura. Fine off-topic.)

Dicevo: e ora che si fa? C’è solo una cosa da fare: cambiare!

Bisogna cambiare il paradigma di aiuto alle persone fragili, alle donne fragili, agli uomini fragili. Il modello dei dormitori, delle accoglienze notturne, è stato e può essere un intervento salvavita ma non può essere la vita. Non può essere una ‘struttura’ su cui ricostruire la propria vita, non può essere una base per ricostruire. Non può essere un modello di dignità.

Quindi c’è solo una cosa da fare: cambiare il sistema di accoglienza. Creare un sistema che permetta alle persone di emanciparsi da un sistema passivo – dove altri decidono per noi – a favore di un modello di partecipazione attiva alla propria vita.

Questa innovazione, questo ‘nuovo paradigma’ ha un nome quasi sconvolgente: CASA.

Sono state queste – e molte altre – le suggestioni che hanno portato a immaginare, progettare e aprire le porte de LA CASA DI CARMEN.

Casa di Carmen è un progetto pilota nato in sinergia fra Caritas, Fondazione Auxilium e Coop. Il Melograno. Un appartamento nel quartiere del Carmine che è, a tutti gli effetti, casa per tre donne che vivono uno stato di difficoltà analogo a quello precedentemente descritto.

Le inquiline avranno infatti modo di essere nuovamente protagoniste della loro vita, potranno decidere per sé anche le cose più semplici, impossibile in un contesto come quello del dormitorio. Potranno lentamente tornare a far parte del tessuto sociale anche grazie al supporto degli educatori della coop. Il Melograno e dei Volontari della Parrocchia di San Paolo. Si vuole accompagnare le inquiline della Casa di Carmen a un’integrazione ecologica con il quartiere e con tutto il tessuto cittadino; integrazione che non è solo una risposta ai bisogni primari e alla cura ma anche e soprattutto alla socialità, al concetto di comunità partecipata.

Il progetto di Casa di Carmen attinge dagli otto principi fondamentali di Housing First, progetto nato negli anni ’90 con radici nelle zone più povere di New York che vuole dare una risposta efficace al profondo problema delle persone senza dimora ‘irriducibili’. In Italia, l’Housing First è da anni al centro dell’azione e della formazione della fio.PSD – Federazione Italiana Organismi Persone Senza Dimora.

Questi principi cardine sono:

  • La casa è un diritto. Nei percorsi proposti alle persone in stato di estrema povertà, la casa viene vista come un premio, come la fine di un percorso lungo ed estenuante che porta a una graduale perdita del proprio libero arbitrio. La casa deve essere invece un diritto primario per ogni persona.
  • Diritto di scelta e controllo. Ogni persona deve poter scegliere per sé e deve, semmai, essere supportata e aiutata a scegliere il meglio per sé. Sostituirsi alle scelte dell’individuo crea un meccanismo di dipendenza che si radica sempre più in profondità.
  • Distinzione fra diritto alla casa e cura. La casa deve essere un diritto e la cura di sé una scelta che va maturata nel tempo.
  • Coinvolgimento attivo senza coercizione. Il modello classico prevede una sorta di contrattazione, quasi un ricatto: “Ti accolgo se ti curi”, “Per poter restare in dormitorio/comunità devi fare questo”. Se, nelle intenzioni, si chiede sempre alle persone di intraprendere dei percorsi per il proprio benessere, questo modello rischia di essere coercitivo. Bisogna, invece, andare sempre più su un livello di persuasione. Accompagnare le persone alla maturazione del concetto di benessere e di scelte che vadano in quella direzione.
  • Orientamento al Recovery. Parallelamente all’intervento educativo di cui sopra, bisogna fornire alle persone una rete di sostegno.
  • Riduzione del danno. Alcune ferite nelle vite delle persone sono profonde e potrebbero non guarire mai; si può però fare in modo che facciano meno male.
  • Progettazione incentrata sulla persona.
  • Supporto flessibile per tutto il tempo necessario: i progetti a termine, a tempo, sono spesso fallimentari. Ogni persona ha tempi di maturazione differenti, non può esistere un conto alla rovescia per cambiare la propria vita.

Casa di Carmen è tutto questo, è casa, è semplicemente casa. Casa dove le inquiline non saranno più ospiti, non avranno un tempo di scadenza – come lo yogurt – ma sarà la loro casa fino a quando lo vorranno, fino a quando non faranno scelte diverse. Sarà la casa dove potranno decidere di tenere un gatto, se lo vorranno; sarà la casa dove poter incontrare i loro figli invece che farlo in strada. Saranno lenzuola colorate e non della lavanderia industriale.

Casa di Carmen è il luogo dove vivranno una vita sempre più da protagoniste piuttosto che da comparse.

Casa di Carmen è… Olè!

 

Nota:

Sì lo so, è di nuovo come la scena finale dopo i titoli di coda. Questo articolo non vuole essere una critica verso un modello messo in pratica da decenni a livello planetario che è quello dei dormitori per le persone senza dimora, assolutamente. I dormitori, da sempre, sono la prima – e spesso unica – risposta alle persone senza casa; non solo, sono a tutt’oggi la migliore risorsa per salvare le vite; lo ripeto, salvare le vite.  

Però il mondo del sociale, come il resto del mondo, si muove e si mette in discussione, cerca di migliorare. Negli anni si è maturata la consapevolezza che un modello assistenziale può frenare un percorso di autonomia e di emancipazione dall’assistenzialismo stesso. Si cercano, appunto, strategie che creino situazioni dove le persone possano sempre più e con sempre più consapevolezza essere detentori delle scelte per la propria vita.

I progetti abitativi come quello di Housing First o Housing Led hanno radici lontane, si parla di anni ’90 per i primi progetti negli Stati Uniti. La definizione di un così sostanziale cambiamento di rotta richiede anni di formazione, di ricerca di risorse e studi che ne dimostrino la sostenibilità e, soprattutto, l’efficacia; è quello che la rete Caritas/Auxilium/Melograno sta mettendo in pratica da anni con la partecipazione a percorsi formativi in questo senso.

Mettere in discussione un modello, inoltre, non può non prendere in considerazione il punto di vista di chi usufruisce di questo servizio, punto di vista che, pur sottolineando sempre l’estrema utilità, non può fare a meno di portare a evidenza le difficoltà di un simile tenore di vita.